18 gennaio 2008

Parla Angelo,il cugino di Francesco "Per me dovrebbe alzare 7 coppe all'anno"

Ti trovi al posto sbagliato nel momento sbagliato e il destino manda i titoli di coda sul sipario che copre pietosamente l’ultima scena.
E se in quel momento a “Pisolo” è passato dentro agli occhi chiusi e insanguinati il film della sua vita, in ogni immagine ha visto sempre lui, Francesco, il suo cuginetto diventato cuginone e poi cugino importante, diventato Totti per gli altri, non per lui, che tutta la vita l’ha avuto accanto, e ora, un anno fa, dentro quella macchina accartocciata, la sua vita poteva finire così, in un attimo. Ma Pisolo, Angelo prima che Francesco non ne cambiasse l’identità con quel soprannome azzeccato, un anno dopo può sorridere dell’incidente e godersi la dedica del gol numero duecento: «Lo dedico a Pisolo – ha detto mercoledì sera dopo la partita il capitano della Roma – che proprio un anno fa ha avuto un brutto incidente. Ma ce l’ha fatta».
Angelo, e tu quando hai saputo della dedica?
«Un po’ l’avevo immaginato quando è venuto sotto la
tribuna e mi ha mandato un bacio. Ma non potevo certo
immaginare che poi ne parlasse nelle interviste. Me
ne sono accorto dopo, ero già rientrato nel mio ristorante
a Porta Portese, ma non stavo sentendo. Me l’hanno
detto gli amici. Devo confessarlo: mi sono commosso».
E’ passato un anno, riesci a parlare dell’incidente?
«Sì, perché credo che l’incidente mi ha pure migliorato.
Fisicamente, intendo. Due mesi d’ospedale
hanno bruciato quattordici chili, ora sono più leggero
e sto meglio. E poi non ho avuto più neanche un
disturbo. Neanche un mal di testa, per dire. Eppure
la mia testa era ridotta male. L’incidente è stato brutto
e io ero in fin di vita. Ne hanno sofferto tutti quelli
che mi vogliono bene, Francesco compreso. E allora
io oggi ne approfitto e... chiedo scusa a tutti».
Non ci si scusa per questo.
«Lo so, è vero. Ma ho fatto star male tutti... E pure
Francesco...».
I lati positivi quali sono?
«Che sto meglio l’ho detto. Posso dire che ho conosciuto
il mio secondo padre, il medico che mi ha seguito,
Stefano Signoretti. Mio papà è venuto a mancare
nel 1991, nessuno potrà prendere il suo posto,
ma io a lui ora lo vedo così. Ero conciato troppo male.
E ne approfitto anche per ringraziare Mario Brozzi.
Mi voleva bene ed è venuto anche in sala operatoria
per assistere all’operazione».
Quanto a Francesco ti avranno raccontato i suoi
momenti di nervosismo anche in campo...
«Sì, certo. Quello che è successo a Livorno, con l’espulsione
e quella brutta scena della spinta a Vito. Ma
quanto ci abbiamo riso dopo... E poi mi ha fatto piacere
dello striscione allo stadio: ma io ero in terapia
intensiva, anche questo l’ho saputo dopo, quando mi
hanno regalato la foto incorniciata: “Daje pisolo lotta e vinci”.
E io ho lottato e ho vinto».
Francesco indossò la maglia col tuo nome la sera di
Berlino con la Coppa del Mondo.
«Gliela tirai dalla tribuna e lui la indossò. Ma non sapevo
che ne esistesse una foto. L’avete pubblicata voi
su Number Ten, Francesco quella mattina m’ha
mandato un sms per dirmi di andare a comprare la
rivista... Che emozione!».
Tu di gol di Francesco ne ricordi forse più di 200.
«Se conto pure quelli nelle partitelle nel cortile di via
Vetulonia saranno migliaia. Il fenomeno faceva la
differenza pure lì».
Non ti sentivi un incapace a giocare con lui?
«E mica solo io... Tutti gli altri bambini avevano questa
sensazione. Finché capimmo che il fenomeno era lui».
Lui pure lo sapeva?
«Faceva sempre tutto così in maniera naturale che non
se ne rendeva conto. Del resto è sempre stato molto umile
e semplice ed è rimasto sempre il ragazzo di sempre».
Una vita in simbiosi.
«Abitavamo a cento metri di distanza, stavamo insieme
all’asilo, alle elementari, nella stessa scuola alle medie,
siamo andati insieme alla scuola calcio della Fortitudo
e poi abbiamo fatto insieme il provino
alla Smit Trastevere. Ci hanno preso
entrambi, ma io ho preferito restare alla
Fortitudo perché era più comodo».
E lui faceva già la differenza?
«L’ha sempre fatta. Quando calciava
il pallone lui era talmente dritto e fermo
che si leggeva la scritta della marca.
Nessun altro arrivava in porta».
Quanti gol...
«Ma il duecentesimo è mio. Bello
no? Rimarrà nella storia, è un gol importante
».
Non te n’aveva ancora dedicato uno?
«Solo una volta, un 4 novembre, era
il mio compleanno e la Roma giocava
con l’Atalanta, mi confessò che
aveva sotto la maglia una dedica per
me. Ma quel giorno non segnò. Ma
sono altre le cose che mi tengo strette
del rapporto con lui. Come quel
momento in cui mi ha chiesto di fargli
da testimone al matrimonio».
La tua vita se lui non fosse diventato
Totti sarebbe stata diversa?
«Sì, penso di sì. E’ cambiata, molto in
meglio, magari in parte anche in senso
negativo. Sai quanti mi vedono come
il “cugino di Totti” e mi stanno vicini
per questo? Un po’ in proporzione
quello che è accaduto a lui. Anche
trovarmi una fidanzata è stata tosta,
ma una l’ho trovata e ci sono stato insieme
quattro anni. Poi è finita ma lei è stata davvero
innamorata di Angelo».
Il rapporto è cambiato con l’incidente?
«Non si può migliorare il massimo».
E non avete mai litigato?
«Una volta, a undici anni, se semo dati due pizze. Nei
giorni successivi ci incrociavamo per strada e non ci
parlavamo... tutta colpa del pallone, come al solito.
Poi ci siamo abbracciati ed è finita lì».
E da grandi?
«A volte è un po’ permaloso. Gli piace far scherzi agli
altri, ma se lo fai a lui... In Sardegna una volta con un
altro amico gli abbiamo rovesciato la stanza della
barca. Per due giorni c’ha tenuto il muso...».
A te ha mai chiesto qualche consiglio?
«Una volta. Considera che a me piacerebbe vederlo alzare
sette coppe all’anno, per quanto lo reputo forte. E
allora quando in un periodo brutto che stava passando
con la Roma gli arrivò un’incredibile offerta del Real
Madrid io, col cuore stretto, gli dissi che avrebbe dovuto
andarsene. Ma lui alla fine mi guardò e mi disse convinto:
“Non gliela faccio. So’ troppo della Roma”. Capito?
Non “gioco nella Roma”. No: “So’ della Roma”».
(Il Romanista)

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